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Interview with Caroline Bourgeois                               Published by Kritika, Milan in 2012
by Valentina Sciarra

 

Caroline Bourgeois ha studiato psicologia clinica, prima di avvicinarsi all’arte per passione.

E’ stata direttrice di gallerie quali Eric Franck Gallery (CH) e Jennifer Flay Gallery che le hanno permesso di conoscere il mondo dell’arte anche oltre i confini europei.

Ha partecipato alla realizzazione di progetti innovativi e indipendenti, come la creazione di installazioni all’interno della metro parigina e la prima edizione nel 2003 di Emerging Resurging Resistant in collaborazione con il New Museum di New York.

E’ stata inoltre direttrice artistica tra il 2004 e il 2008 del noto Plateau di Belle Ville, una piattaforma d’arte contemporanea unica nel suo genere.

Oggi è la principale curatrice della Fondazione François Pinault, per cui ha curato negli ultimi anni: Passage du Temps al Trip Postal in Lille (2007), A certain state of the world al Garage Center for Contemporary Art di Mosca (2009), Who is afraid of artists? Dinard (2009), Elogio del dubbio a Punta della Dogana e Il mondo vi appartiene a Palazzo Grassi, entrambe nel 2011.

Mentre nel 2012 ha curato, sempre per la Fondazione Pinault, la personale dell’artista svizzero Urs Fischer e l’esposizione La voce delle immagini.

 

In ogni sua mostra ha la capacità di andare ben oltre la semplice figura della curatrice.

Cogliendo aspetti salienti della società contemporanea, Madame Bourgeois delinea percorsi espositivi di una chiarezza concettuale sconcertante.

Un modo di vedere l’arte “semplicemente” per il grande pubblico.

 

L’elemento costante del suo metodo di lavoro come curatrice è di creare per ogni esposizione un percorso di visita comprensibile e apprezzabile da ogni tipologia di pubblico. Per lei, quali sono le possibili chiavi di lettura dell’ultima esposizione La Voce delle Immagini?

 

Nel momento in cui mi trovo a delineare il percorso di una mostra cerco di pensare al pubblico che potrebbe andare a vederla. Soprattutto quando, come nel caso di Palazzo Grassi, mi ritrovo con un pubblico che non necessariamente si confronta con l’arte contemporanea abitualmente. Ciò che trovo essenziale è che ognuno sia messo in condizione d’esser critico di ciò che vede. Nello specifico per Voce dell’immagini ho cercato di favorire questo processo di elaborazione personale, affiancando opere video di diversa natura. Ovvero video che possano durare qualche secondo seguiti da video più complessi che richiedono una profonda concentrazione per la loro comprensione; o ancora ho lavorato sul contrasto tra opere in cui la dimensione del sonoro e’ importante e opere silenziose come nella sequenza Zoe Leonard, Bruce Nauman, Paul Chan, Javier Téllez.

 

 

 

 

Nella mostra, a parte il lavoro di Zoe Leonard, sono presenti solo opere filmate e immagini in movimento, sotto forma di semplici proiezioni o d’installazioni. Lo strumento del video, grazie ovviamente alla tecnologia, può essere oggi elaborato in molti modi e secondo regole differenti; tutte queste diverse forme di immagini in movimento sono rappresentate appunto nella mostra. Perché tanto interesse verso l’immagine video?

L’ingresso della video art nel mondo dell’arte e’ un fenomeno piuttosto recente. Pur essendo nato alla fine degli anni Sessanta, forse solo a partire degli anni Novanta le istituzioni hanno preso coscienza di questo evento ed hanno lasciato spazio agli artisti interessati a esprimersi attraverso il video. Parlando in generale, a quell’epoca l’ambito di ricerca era per lo più confinato ai diversi usi dell’immagine in movimento, con finalità politiche o di ricerca. E’ solo oggi che vediamo i primi risultati di questa sperimentazione. Il video, grazie alla sua maggiore accessibilità sia tecnica che economica, è divenuto il mezzo privilegiato per la sperimentazione nell’arte contemporanea. Penso ad artisti di paesi in cui è meno forte la storia dell’immagine, e quindi dell’arte in generale. Questi artisti sono entrati direttamente nella questione dell’immagine e da questo punto di vista trovo interessante analizzare quali siano i risultati di tale “nuova” produzione.

 

 

Lei ha abbinato alla mostra una programmazione di proiezione di film realizzati da artisti.

Quale crede che sia il punto di contatto e la differenza fra il cinema e la video arteoggi?

 

Credo che la principale differenza fra il cinema e la video arte sia in rapporto alla questione d’identificazione e di narrazione. Difficilmente potremo trovare in un film la stessa immediata identificazione nelle immagini riprodotte rispetto a un’opera di video art. Ovviamente elemento chiave è anche il ritmo e la tempistica di narrazione intenzionalmente scelta dall’autore.

Figure intermedie che credo si pongano al limite fra cinematografia e video arte possono esser i registi Alain Cavalier e David Lynch, o gli artisti Julian Scnabel e Dominique Gonzalez-Foerster.


 

 

 

 

Ormai la cultura visiva, in particolare con l’introduzione delle tecniche digitali è profondamente cambiata. Ad esempio, è chiaro che un’immagine, in ogni formato in cui è rappresentata, non è letta soltanto in ragione delle sue valenze estetiche, ma è stato introdotto un nuovo criterio di valore, come la capacità di suscitare reazione emotive nello spettatore. Se pensa alla mostra, quali altri valori custoditi o rivelati dalle opere le vengono in mente?


Sicuramente vi è una dimensione pittorica, pensando al video di Arni Sala che potrebbe essere contemplato come un quadro, o una dimensione scultorea, come nel caso dell’opera di Bruce Nauman. Ciò vuol dire che nella totalità delle opere in mostra non siamo esclusivamente nell’atto del guardare. Uno dei miei propositi è stato quello di trasmettere l’interesse per il video quale strumento capace di coinvolgere interamente il corpo e la mente. Per non essere esclusivamente spettatori, il corpo e la mente, entrambi, sono chiamati in azione.

 

 

 

 

 

Una cosa che colpisce dell’esposizione è l’estrema diversità culturale delle opere. E’ evidente che l’asse d’interesse del panorama artistico non è più confinata all’Europa o agli Stati Uniti. Cosa hanno in comune artisti di culture apparentemente lontane e, forse, cosa potrebbero insegnare questi artisti a quelli per cosi dire “occidentali”?

In effetti penso che il video abbia aperto i confini dell’arte come nessun altro medium abbia fatto fino ad ora. Il panorama video – e quello artistico in generale – ha trovato terreno fertile in Oriente e Sudamerica. Da qualche anno i giovani artisti, per cosi dire “non occidentali”, si sono impadroniti del video, essendo questo un mezzo facilmente accessibile e che permette un’ampia diffusione. L’aspetto a mio parere interessante di questa partecipazione multiculturale alla produzione video e’ che la gran parte degli artisti lo utilizzano senza subire il peso del passato, come spesso accade in Occidente, e sappiano sviluppare relazioni diverse con la storia del cinema e la storia dell’arte.

 

 

 

 

La vostra intervista a Bill Viola, pubblicata nel catalogo della mostra, giunge a una precisa conclusione o suggerimento per la società futura, non solo per i giovani artisti.

Ovvero la necessità d’integrazione e di fusione fra le culture, fra le diverse arti, reso possibile dalle nuove tecnologie. Purtroppo però ai più sembra che questa famosa fusione sia lontano dall’esser reale. Lei crede che l’arte possa essere lo strumento ideale (se non l’unico strumento) con cui accompagnare la società a fare questo grande passo?

 

Io spero sinceramente no, perché confido (forse illudendomi) nella capacità dei politici ad accompagnare la società in questo passo cosi importante . Comunque l’arte ovviamente partecipa a questa evoluzione della società. E’ evidente che l’arte stia uno strumento, una parte essenziale della società stessa. Se posso permettermi una riflessione personale sulle capacità dell’arte direi che quella che preferisco e’ la possibilità di aprire la mente delle persone e dare la possibilità di rendersi conto d’esser più intelligenti di quello che si crede.

 

 

 

 

Un’ultima domanda sull’esposizione dell’artista svizzero Urs Fischer, Madame Fisscher. Fischer è un maestro nel combinare illusione e realtà, violenza e humour, eterno e fugace.

Da curatrice, qual è stato l’interesse a organizzare una personale di un artista decisamente così particolare; immagino non tanto l’effetto “scalpore”, quindi cosa?

 

Credo che Urs Fischer sia un artista unico nel suo genere. Questa eccezionalità è data dal suo processo creativo. La libertà attraverso cui trasforma, crea, riflette è diretta esclusivamente alla sperimentazione, non è così importante se alla fine il risultato sia positivo o negativo. Prendo ad esempio la prima opera che accoglie il visitatore alla mostra, Madame Fisscher ovvero lo studio londinese dell’artista. Il visitatore entra in vivo contatto con il processo stesso della creazione artistica, che non è mai lineare, ordinato, esteticamente strutturato, ma in Fischer e’ tumultuoso, spesso ironico, tendente all’assurdo. Non saprei pensare ad altro artista che si presenti così sinceramente al pubblico come lui.

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